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La tradizione del banchetto nell’antica Roma

Dopo aver in un primo tempo mangiato seduti presso il fuoco, i Romani presero l’abitudine di cenare nell’atrio delle loro domus, ambiente in origine attiguo alla cucina, tanto che il suo nome era derivato dal colore nero provocato dai fumi del focolare (da atramentum, inchiostro). Più tardi questo locale centrale fu spostato all’aperto e in seguito venne chiuso, isolato e prese il nome di tablinum mentre la sala da pranzo fu situata di preferenza al piano superiore. Nelle grandi case le sale da pranzo erano più di una, occupate secondo la stagione dell’anno e l’orientamento del sole: se ne costruirono persino sopra piscine e canali affinché gli invitati potessero scegliere direttamente il pesce che desideravano mangiare e in grotte naturali o artificiali per l’estate.

 

A banchetto

La consuetudine di mangiare distesi su di un letto si diffuse a Roma e poi in tutta Italia e nelle province dell’Impero in età repubblicana, in particolare sotto l’influenza greca e orientale, anche se già gli Etruschi mangiavano sdraiati. Anche presso le classi più modeste, l’usanza voleva che almeno nelle grandi occasioni si mangiasse coricati. Questa posizione, apparentemente non confortevole, permetteva però di ingerire una maggiore quantità di cibo e consentiva ai convitati sazi oltre misura di assopirsi tra una portata e l’altra.

Si sdraiavano gli uomini ma non le donne, i bambini e gli schiavi. In un primo tempo le uniche donne ammesse ai banchetti furono solo le cortigiane. In seguito anche le altre cominciarono a prendervi parte, ma da sedute poiché non considerate in grado di partecipare alle conversazioni di politica, letteratura e filosofia (anche se sembra certo che almeno nelle cene intime, potessero coricarsi sullo stesso letto del marito). Solo molto tempo dopo gli uomini, in età imperiale, furono autorizzate a consumare i loro pasti sdraiate.

I bambini e gli adolescenti che non avevano assunto la toga virile mangiavano, ancora ai tempi dell’Impero, seduti su sgabelli davanti al letto del padre e della madre. In certe occasioni particolari e con l’autorizzazione dei loro padroni, anche gli schiavi potevano mangiare coricati. Ai convitati era inoltre consentito portare commensali non invitati dal padrone di casa: questi, chiamati umbrae, erano bene accetti ma non potevano prendere posto sul letto triclinare al pari degli altri ospiti e partecipavano al banchetto anch’essi da seduti.

Intorno alla tavola, esistevano generalmente tre letti, chiamati summus, medium, imus, da tre posti ciascuno per un totale di nove posti. Le fonti, infatti, ricordano che il numero ideale di commensali era dai tre ai nove, come le Grazie e non più delle Muse. Questo letto da tavola era chiamato più in generale  triclinium termine che in breve tempo finì per identificare l’intera sala da pranzo. Sotto l’impero i letti si ingrandirono sino ad arrivare anche ad otto posti e, dal II sec. d.C., i tre diventarono un unico grande a mezzaluna. Solitamente i triclini venivano addossati contro le pareti della sala e disposti attorno ad una tavola con tre piedi (inizialmente di forma quadrata, successivamente circolare). Sul letto il convitato stava coricato di sbieco sul lato sinistro appoggiando il gomito su di un cuscino. Tutti gli invitati erano rivolti nello stesso senso verso la tavola; i posti venivano separati da cuscini sistemati sotto la coperta e la loro assegnazione era stabilita in base al prestigio dei presenti: il padrone in genere veniva a trovarsi alla destra dell’ospite d’onore ma col tempo non si fu più così rigorosi.

 

Rituale del banchetto

Partecipare ad un banchetto era un vero e proprio rituale e iniziava già con la scelta dell’abbigliamento. Molto indicata era la vestis coenatoria o synthesis, tunica piuttosto ampia in lino colorato e leggero che garantiva una certa libertà di movimento e che occorreva talora cambiare tra una portata e l’altra per mantenerla pulita; ai piedi si toglievano i sandali ordinari e si calzavano le solae, riservate all’uso domestico e costituite da una suola particolarmente confortevole e da sottili strisce di pelle intrecciate sul dorso del piede e legate alla caviglia.

La tavola quadrata veniva chiamata cilliba (“tavolo a tre piedi”) mentre quella successiva e rotonda mensa (dal greco mesa) perché, secondo Varrone, essa era posta al centro. Accanto a queste ne esisteva una per il vino, anch’essa rotonda e con un solo piede, chiamata cilibantum e l’urnarium, riservata ai recipienti contenenti acqua chiamati urnae. Le tavole erano coperte da una tovaglia detta mappa, diffusa già dall’età augustea, che durante lo svolgimento del pasto veniva pulita dai servitori con la gausape, un panno di lana grezza a pelo lungo. Su una tavola apparecchiata con cura non dovevano mai mancare la saliera (salinum), l’ampolla dell’aceto (acetabulum) e, talvolta, uno scaccia mosche (muscarium pavoninum). Sempre presenti anche gli stuzzicadenti (dentiscalpia) costituiti da una lunga spina di legno, da una piuma o da altro materiale idoneo sia per funzionalità che per igiene e sicurezza.

 

Piatti e posate

Il piatto era sorretto dal convitato con la mano sinistra. Poiché si ignorava l’uso della forchetta, che fece la sua apparizione solo in tarda età imperiale, si adoperavano le dita per mangiare. I grandi forchettoni con tre o quattro denti, visibili su raffigurazioni e affreschi, erano semplicemente utensili da cucina o strumenti utilizzati dagli schiavi, chiamati carptores o scissores, che per maggiore comodità dei commensali tagliavano gli alimenti a piccoli pezzi. Il coltello veniva usato nei ritrovi quali tabernae o popine, mentre non era presente nei banchetti a causa della posizione sdraiata assunta dai commensali. Del cucchiaio si conoscevano due diversi modelli: un primo inizialmente realizzato in legno ma con il tempo fabbricato anche in metallo, chiamato ligula; un secondo, il cochlear (da cui è derivata la parola “cucchiaio”) con le estremità utilizzate rispettivamente per estrarre le lumache dal guscio, come dice il nome, e come portauovo. Per non macchiare la coperta sulla quale erano distesi, gli invitati avevano l’abitudine di portare un tovagliolo personale che serviva loro anche per avvolgere gli avanzi del pasto talora offerti dal padrone di casa o, nel caso di clienti perennemente affamati, per nascondere quello che arraffavano nel corso della cena. Numerosi resti alimentari cadevano sotto il triclinio e, alla fine del convivio, questi venivano fatti mangiare dai cani oppure degli schiavi provvedevano a pulire il pavimento con della segatura. Riguardo all’impiego dei piatti è necessario distinguere tra quelli utili per la presentazione delle portate e quelli usati per mangiare. Langula di forma ovale e paropsides rettangolari o quadrati, appartenevano alla prima categoria: potevano essere molto grandi, di varie forme e a volte costruiti appositamente in funzione della dimensione delle vivande da presentare. I piatti usati per mangiare erano invece molto semplici: leggermente incavo il catinus (per le carni), a scodella il tryblium o gabata (per i passati o le minestre). Vi era comunque chi consumava uova, formaggi o funghi direttamente sopra una vera e propria focaccia. Più numerosi dei piatti erano i bicchieri, più correttamente detti “vasi da bere”: semplice era il poculum, calice privo di piede inizialmente in legno o terracotta, successivamente in metallo; quello invece di maggior utilizzo era la phiala, una sorta di coppa priva di manici. Il calix, infine, non di rado fornito di manici, aveva una funzione simile alla nostra coppa da spumante.

 

Personale di cucina e di servizio

Competente e ben strutturato era il personale di cucina e di sala. Uno schiavo detto nomenclator era addetto a ricordare il nome delle persone incontrate, assisteva l’anfitrione nell’assegnazione dei posti e accompagnava gli ospiti. A capo della cucina vi era l’archimagirus, responsabile dei viveri. I domestici destinati alla sala, detti ministratores erano scelti in base all’abilità e all’avvenenza. I più accattivanti erano addetti a versare il vino: selezionati tra gli adolescenti di bell’aspetto con lunghe chiome, indossavano leggere tuniche di colori diversi mentre quelli adibiti ai lavori più grossolani vestivano con maggiore semplicità ed avevano la testa rasata. Gli schiavi che recavano le portate erano talora abbigliati in rapporto al tipo di piatto che veniva presentato sulla tavola (ad esempio cinghiale e cacciatore). Gli scoparii pulivano dopo i pranzi il mosaico che rivestiva il pavimento.

 

Portate

La cena era aperta da gustatio, abbondanti antipasti, chiamati anche promulsis (da mulsum, il vino mielato che li accompagnava). Uova, olive, verdure o pesci, conditi con salse, erano gli alimenti che componevano questa parte del banchetto. Seguiva la prima mensa, durante la quale venivano servite diverse portate, chiamate fercula, di maiale, agnello, pollame, selvaggina e pesce. La lista delle vivande si completava con la secunda mensa, termine derivato dall’antica usanza greca di cambiare l’apparecchiatura della tavola. In questa parte erano offerti frutti freschi o secchi, dolci e a volte cibi salati come salsicce o focacce al formaggio. Durante il pasto veniva bevuto il vino ma con moderazione, per non interferire con l’offerta rispettosa fatta ai Lari fra la prima e la seconda mensa. Durante il pasto si era autorizzati, con editto imperiale, a emettere qualunque rumore corporale. Sovente per rallegrare l’atmosfera si ricorreva alla presenza di un comico (scurra o derisor), di professione o no, incaricato di creare una situazione vivace con battute di spirito e racconti di storielle.

 

Comissatio

I grandi convivi si concludevano con la comissatio e con una bevuta generale di vino sottoposta a regole ferree, accompagnata da cibi più leggeri ma fortemente speziati atti a stimolare la sete e da piatti più sostanziosi: si trattava sostanzialmente di una sorta di dopo cena al quale si potevano aggiungere anche ospiti non presenti fino a quel momento della serata. La comissatio poteva protrarsi a lungo nella notte. Secondo l’usanza greca veniva eletto un re del banchetto, il magister bibendi, che aveva il compito di sovrintendere al buon funzionamento delle varie operazioni, di controllare la proporzione del vino e dell’acqua che uno schiavo mescolava dentro un cratere e di stabilire il numero di coppe che i convitati avrebbero dovuto bere.

L’atmosfera era decorosa o volgare a seconda delle regole imposte dal magister bibendi alla serata. Normalmente le mogli non assistevano a questa parte del banchetto e rimanevano soltanto le cortigiane. Nel caso, però, il banchetto rispettasse certe regole di decoro e buon gusto e il programma delle attrazioni fosse di livello garbato, le mogli potevano fare compagnia ai mariti. I brindisi erano alternati ad attrazioni la cui importanza variava a seconda della natura del pasto. Queste potevano essere musicali, letterarie, teatrali, danzanti o costituite da spettacoli di buffoni, giocolieri e addirittura di gladiatori, offerti solo dai più ricchi.

 

Apophoreta

Alla fine del convivio il padrone di casa offriva ai commensali degli apophoreta, piccoli doni come unguenti, oli ed essenze profumate che venivano sorteggiati tra gli invitati: da questo usanza potevano derivare talvolta situazioni curiose o comiche (ad esempio: un pettine assegnato a un calvo), come riferisce anche Marziale divertendo i suoi lettori 

 

Ius in pisce elixo

 

Piper, ligusticum, cuminum, cepulam, origanum, nucleos, careotam, mel, acetum,liquamen, sinapi, oleum modice, ius calidum si velis, uvam passam.

 

De re coquinaria , 435

 

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