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Storie di uomini, storie di cibo.

Riportiamo in questa sezione i racconti scritti dalla signora Fidanza, volontaria della casa di riposo "Fondazione Molina" , dopo avere raccolto le testimonianze di tre ospiti che si sono raccontate ai ragazzi in occasione della loro visita all' "A.Frank". Ve li consegnamo come si consegna una cosa preziosa perchè per noi ha significato molto ascoltarli, in quanto ci hanno fatto commuovere, riflettere, sorridere, imparare... Gustateli, allora, a piccoli sorsi, centellinandoli come un vino pregiato della miglior... annata!

"Il pranzo di Natale"  di Teresa Bignami

 

Il pranzo di Natale era un’eccezione nella povertà di cibo del tempo di guerra e di tutta la mia gioventù. Mia madre diceva che tutti nella grande festività avevano diritto di sentirsi signori davanti ad una tavola ben imbandita e ricca di tutti i cibi della tradizione, per questo accantonava piccoli risparmi.

Già una settimana prima della festività si stendeva il menù, sempre uguale da generazioni, ogni cibo doveva essere acquistato in particolari negozi varesini, dove si poteva trovare il meglio.

L’antipasto comprendeva prosciutto crudo, scelto con cura da Valenzasca, il miglior gastronomo di Varese, doveva essere al fiocco con un sottile strato di grasso, salame Milano, salame d’oca, sottaceti e un particolare paté che aveva solo a pezzi Battaini il salumiere.

Il primo consisteva in un piatto di ravioli in brodo. Si acquistava un bel pezzo di biancostato, lo si lessava con carota e cipolla per ottenere un ottimo brodo che poi veniva abilmente sgrassato. I ravioli erano fatti in casa con la collaborazione di tutti, oppure venivano comperati da Cantù e in questo caso si calcolavano trenta grammi a persona per risparmiare.

Il secondo aveva d’obbligo un cappone nostrano, cucinato al forno, spesso il collo dell’animale veniva riempito con un particolare ripieno. Come contorno c’erano patate fritte, spinaci, insalata soncino, presa personalmente nei prati, e la famosa mostarda, comprata sciolta da Besozzi che ne aveva un grosso mastello. C’era poi la frutta: mandarini, spagnolette, nocciole, noci. Ed infine, come dolce c’era un ottimo panettone fatto in casa e un surrogato di caffè, perché quello vero non si trovava.

Ricordo che mangiavo talmente tanto da sentirmi scoppiare, ma ritrovavo sempre la forza per completare la festa giocando a tombola. Gli avanzi del pranzo si mangiavano a Santo Stefano, a san Giovanni e qualcosina rimaneva a volte fino all’Epifania, poi si tornava ai soliti poveri menù.

 

 

"Il pranzo di Natale in una fattoria del Veneto"   di Assunta Magonara

 

Sapevo che durante la guerra il cibo era per tutti scarso, ma per fortuna la mia famiglia coltivava la terra a mezzadria, per questo a noi non  mancava mai un’ottima minestra di verdura sempre arricchita con  cotenne o con un osso di maiale, un po’ di carne di polli e conigli e il nutriente latte delle nostre mucche.

Il Natale era atteso per qualche piccolo dono e per il tradizionale pranzo dove c’era abbondanza di tutto.

I preparativi partivano all’inizio di dicembre, quando veniva ammazzato il maiale, di questo animale non si buttava niente e tanto era il lavoro per la conservazione di ogni sua parte. Il pezzo migliore, il filetto, veniva scelto proprio per il pranzo di Natale. Quando arrivava la famosa festa, in cascina si allestiva il piccolo presepe e si adornava un ramo di pino con mandarini, frutta secca e biscotti. Già alle cinque di mattina si incominciava a cucinare:  per prima cosa si lessava il cappone per avere un ottimo brodo, poi si impastavano uova e farina per fare le tagliatelle, mentre il filetto di maiale, accantonato per la festa, cuoceva sul fuoco, profumato da erbe odorose come salvia e rosmarino. Come contorno c’erano patate fritte, verze, insalata e mostarda, prelibatezza comprata per l’occasione. Come frutta erano pronti mandarini, mele, frutta secca e carrube. Come dolce non mancava la torta margherita fatta da mia madre. Alle 11  il lavoro si interrompeva per andare alla Santa Messa. Al ritorno si apparecchiava ed eravamo pronti a gustarci i meravigliosi, abbondanti cibi, serviti con ottimo clinton, il vino prodotto nella nostra fattoria.

 

 

 

"Povertà"    di Adele Galli

 

In gioventù ho conosciuto la vera povertà: la mia famiglia era composta da nove persone, io ero la più giovane di sette fratelli. Lavorava solo mio padre e i soldi erano veramente pochi. Il  problema più importante era riuscire a sfamare le numerose bocche sempre affamate. Per dimostrarvi quanto poco si mangiava, vi voglio dire che da ragazza pesavo quaranta chili ed ora peso quasi il doppio! 

A colazione c’era un solo litro di latte che veniva diviso equamente per nove. A pranzo si cucinavano quasi sempre patate, fagioli e lenticchie in umido.A cena l’unico cibo era la minestra, visto che un’amica di Casbeno era solita regalarci un po’ di verdura. Spesso non avevamo né olio né burro per condire, in quel caso bastava un pezzetto di lardo che veniva abilmente diviso in piccole porzioni.

Ricordo che una volta la mamma disse:- Oggi si cambia cibo, c’è  pollo lesso.

Portò in tavola una pentola fumante con un profumato, invitante brodo dal quale la mamma cominciò ad estrarre delle zampe. Mio fratello disse:- Ma dov’è il pollo? La mamma senza rispondere continuò ad estrarre dalla pentola le zampe, regalo di una contadina che aveva venduto i suoi polli spennati e puliti.

Qualche volta si riusciva a comperare a poco prezzo la trippa, unico cibo che a me non piaceva, ma che mangiavo lo stesso.

Le cose migliorarono un po’, quando i fratelli maggiori incominciarono a lavorare, perché in casa entravano più soldi. Anch’io a quattordici anni fui assunta al Calzaturificio di Varese ed ero ben felice di contribuire alle necessità familiari. I signori Trolli, proprietari della mia ditta, erano molto generosi, ogni anno offrivano a tutti i dipendenti un ricco pranzo che comprendeva antipasto, un primo di risotto alla milanese, pollo con verdure varie e dolce. Non vi so esprimere la gioia e la gratitudine  di tutti noi che potevamo mangiare a volontà tante cose buone!

Sembrava che tutto andasse meglio, quando purtroppo scoppiò la seconda guerra mondiale e tutti i miei fratelli dovettero vestire la divisa militare e partire. Gli anni di guerra furono durissimi:  il cibo scarseggiava e ci fu il razionamento dei generi alimentari di prima necessità:  pane, farina, olio e sale erano tesserati, cioè si potevano acquistare solo consegnando al negoziante un talloncino della tessera che il comune dava ad ogni famiglia. I talloncini erano così preziosi che dovevano essere ben custoditi; ricordo che un giorno ne posai uno vicino alla cassa del panettiere, mi distrassi un attimo e chissà come sparì, mi era stato rubato, per questo grave danno ricevetti una severa sgridata da mia madre e tutta la famiglia non ebbe pane per quel giorno. Chi aveva i soldi soffriva meno, perché esisteva la “borsa nera”: bastava pagare e si trovava un po’ di tutto.

A Biumo dove vivevo c’era una ricca famiglia i Molina, gli stessi che hanno donato a Varese la casa di riposo dove ora vivo, a casa loro regnava l’abbondanza, ma erano anche molto generosi: fornivano tutto il cibo necessario all’asilo, così i bambini potevano mangiare gratuitamente un’ottima minestra ben condita e questo in tempi difficili era un grosso dono. Ricordo che proprio la signora Molina, per avere una numerosa partecipazione a funerali importanti, metteva fuori dalla chiesa questo cartello: - Ad ogni adulto che parteciperà al funerale verrà donato un pacchetto di sale e ad ogni bambino una brioche. Visto i tempi accorrevano veramente in tanti!

Anche il mio principale era generoso: durante la guerra univa allo stipendio cinque  chili di riso, fingendo di farcelo pagare, ma non era così. La guerra finì e pian piano in questo lunghissimo periodo di pace ho conosciuto la serenità e l’abbondanza, ma non posso ancor oggi buttare un pezzo di pane o sciupare del cibo.

 

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